ESTESO

A CURA DI PIETRO GAGLIANÒ

SUFA 2023,
RACCONTARE LE MIGRAZIONI. POETICHE DELLO SGUARDO

PALAZZO GIORGI, POPPI (AR)
dal 23/03/2024 al 24/04/2024

Restituzione di paesaggio

Il progetto di Marina Arienzale per il Casentino può essere raccontato scorrendo la lista

delle ipotesi considerate per il suo titolo, via via scartate e rimpiazzate, fino al definitivo

Esteso che nella sua astrattezza comprende più di altri le molte pieghe di questa ricerca.

Esteso è il paesaggio scoperto dall’artista dall’alto della torre del Castello dei Conti Guidi

a Poppi e dalle finestre delle case del centro storico, dove ha goduto della quieta,

discreta ospitalità dei residenti. Un paesaggio antico dove coesistono ancora, in un

equilibrio sempre più compromesso, la natura e una sapiente antropizzazione. Esteso è

lo sguardo che ha potuto spaziare oltre gli ostacoli delle costruzioni, e esteso è il tempo

dedicato allo sguardo, ripulito dalle continue distrazioni, dal rumore di sottofondo del

quotidiano, non più scandito dalla molesta acustica delle notifiche del cellulare, non più

frazionato dalla richiesta di attenzione che arriva senza sosta per innumerevoli vanità.

Ed Esteso descrive meglio di altri termini la pienezza, l’equilibrata vertigine della

completezza della percezione di cui Arienzale fa esperienza con la sua pratica di

osservazione del paesaggio.

DMN, uno dei titoli candidati e poi esclusi, è l’acronimo di “Default Mode Network”, una

condizione della rete neurologica che il cervello attiva quando non è sottoposto a

sollecitazioni, non è impegnato in compiti specifici; più semplicemente: quando lasciamo

che la mente segua un percorso ondivago, facilitato proprio da un orizzonte visivo,

acustico e relazionale sgombro. Gli studi che provano i benefici di questa condizione in

persone con problemi clinici (come l’Alzheimer, per esempio), ma anche per il benessere

di persone considerate sane, hanno ispirato il progetto di Arienzale e la sua declinazione

in questa esplorazione dell’ecosistema sociale, architettonico e naturale del Casentino.

Non avevo voglia di fare niente è il titolo più provocatorio tra quelli pensati, perché

sembra evocare una pigrizia generazionale, o un rifiuto delle dinamiche del lavoro che

possono rivendicare solo gli artisti. In realtà indica una vocazione contemplativa che

proprio nella cornice del Casentino, con i suoi santuari naturali e religiosi, trova

accoglienza. In questo senso il progetto è anche dotato di un carattere eversivo, perché

oppone all’ossessione per la produzione, per il raggiungimento di risultati concreti,

tangibili (e magari validi per il sistema del mercato), il valore di un tempo speso

altrimenti, una salvifica mancanza di finalità, quasi paradossalmente perseguita come

fine.

Non ha fatto altro, Marina, che incontrare vecchi e nuovi abitanti, condividendo con loro

riflessioni e, in alcuni casi, il tempo trascorso al cospetto del paesaggio. L’Idea di un

tempo, altro titolo, è forse l’obiettivo di questo desiderio, rispetto al proprio

posizionamento nel mondo e alle relazioni che intrecciamo con gli altri.

Cosa rimane, infine, di tutto questo vagare e sostare? Quale forma è stata scelta per

l’opera che in ogni caso deve testimoniare il passaggio dell’artista e lo spazio di esistenza

dell’arte? Rimane il paesaggio. Anzi, ritorna. Gli esiti formali del progetto di Arienzale

creano una costellazione di tre installazioni in cui si delinea la Restituzione del paesaggio

(il più bello tra i titoli mancati): riconsegnato dall’artista a se stessa e a noi spettatori

distratti che lo ritroviamo nelle opere realizzate per Palazzo Giorgi, esposte qui per la

prima volta.

A Palazzo Giorgi, tra le architetture più importanti di Poppi, il paesaggio è più volte

negato. Le monumentali sale sono ricoperte da affreschi ispirati al vedutismo

settecentesco, con scorci di rovine, città, giardini e scene di natura selvaggia. Tutto

questo è quasi completamente sottratto alla vista da un greve impianto di pannellature

predisposto per le esposizioni e per la salvaguardia degli affreschi medesimi. Marina

Arienzale apre su questa contraddizione (la protezione come negazione) una sequenza di

rimandi che inizia nella sala principale dove è esposta una serie di carte, esito di una

lavorazione che unisce l’incisione a secco con la pittura ad acquerello. Sull’ampia

superficie l’artista ha impresso la sagoma semplificata, elementare, di alcuni elementi

scorti nel paesaggio. Presenze secondarie ma diventate centrali come fattore di

attrazione dello sguardo o come ragione di disturbo. Queste forme, ridotte a un disegno

lineare, insistono in una nuova interpretazione del paesaggio espressa come successione

e sovrapposizione di campi di colore.

Nell’unica sala in cui le pareti non sono pannellate l’artista ha puntato tutti i faretti

verso i paesaggi affrescati, incorniciati da quinte di architettura neoclassica. Il

paesaggio negletto viene così riproposto all’attenzione dei visitatori, invitati a

un’osservazione ravvicinata. Ma per attraversare la stanza è necessario calpestare il

pavimento realizzato dall’artista, un friabile mosaico di gesso dipinto con colori naturali

che sembrano essere colati per terra direttamente dagli affreschi, estesi oltre le loro

cornici dipinte. La distruzione dell’installazione, che è in sé una sfida per il pubblico,

suggerisce una riflessione sulla fragilità della bellezza e del pianeta, sul prezzo che siamo

disposti a pagare, sulla possibilità di scelta tra godimento e privazione, tra salvaguardia e

consumo, o sulla sua inevitabilità. Quello che rimane è un nuovo paesaggio, sospeso tra il

fascino delle rovine, che dal Settecento ha ammaliato generazioni di viaggiatori, scrittori

e vedutisti, e la scoperta che niente è intangibile e che la bellezza è un concetto, esito di

una serie di trasformazioni spontanee o indotte.

Anche il terzo intervento di Arienzale si misura con un paesaggio negato: quello reale

che fronteggia il fronte ovest del Palazzo, pure questo impedito alla vista dalla pesante

pannellatura. L’artista qui ha limitato il suo gesto a una semplice sottrazione, con la

rimozione di un pannello in corrispondenza della finestra. È questo ci suggerisce perché

abbiamo ancora bisogno del lavoro dell’arte: perché mostra le cose che sono già lì e che

non riusciamo a vedere.

Pietro Gaglianò

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